jueves, 26 de junio de 2008

Il poster della vergogna (Por Andrea Schianchi)

Estimados lectores:

Me place reproducir, con su acuerdo, un texto al que dudaría en llamarlo "ficción", en todo caso, sería una especie de ficción "real", del distinguido colega Andrea Schianchi, de "La Gazzetta dello Sport", de Italia, que me enviara gentilmente.

Il poster della vergogna
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Cominciò tre anni fa.
Prima fece secco Passarella: un colpo preciso al capitano che stava all’estrema sinistra. Gli parve di vederlo balzare all’indietro, la testa all’insù, verso il buio.
Poi mirò a quello sulla destra che si metteva a posto i guanti e lo beccò in faccia: era Fillol, il portiere. Vide il suo sangue zampillare dappertutto e fu felice.
Infine, si concentrò su un piccoletto inginocchiato, dalla fronte alta, gli occhi neri e grandi. Fu più difficile di quanto pensasse, ma ci riuscì. E anche Ardiles si piegò, senza vita, sul campo verde.
Juan Antonio Hernandez, adesso, era un ragazzo soddisfatto. Staccò le freccette dal muro e le ripose nel cestino di vimini accanto al letto: gli era piaciuto giocare con la morte.
Aveva già ventun anni, ma ogni giorno si concedeva almeno dieci minuti per il suo divertimento. Prendeva una vecchia fotografia della nazionale argentina campione del mondo nel 1978, la fissava al muro della camera e dava inizio al massacro.
Juan Antonio aveva pochi giorni quando a Buenos Aires si aprì il mondiale di calcio. Era il 1° di giugno del 1978. Soltanto anni dopo venne a sapere tutta la storia.
La madre di Juan Antonio era comunista con tanto di tessera del partito in tasca. Il padre pure. Una domenica sette uomini abbastanza giovani, senza divisa e dai modi volgari, vennero in casa a prenderli, li caricarono in macchina, li bendarono e li portarono in una cantina. Juan Antonio nacque lì sotto, nel buio e nel freddo.
Poco tempo dopo un signore dai baffetti sottili e dalle mani ben curate, che portava l’uniforme dell’esercito, entrò nella cella della madre di Juan Antonio, la schiaffeggiò e le gridò in faccia che non avrebbe più visto suo figlio.
Il piccolo finì alla famiglia del colonnello Suarez. Lo tirarono su, papà e mamma Suarez, come fosse loro figlio. Non gli fecero mancare nulla: l’asilo a tre anni, poi le scuole elementari e via dicendo.
Abitavano in una bella casa in un quartiere residenziale. C’era la domestica, una signora simpatica che avrà avuto una sessantina d’anni; c’era il portiere del palazzo, un tifoso del Boca, guai a chi gli toccava i suoi idoli e guai a chi lo disturbava il lunedì mentre leggeva i resoconti delle partite della domenica; e c’era anche un altro bambino, Hernan, che abitava al piano di sotto, e Juan Antonio spesso andava a giocare con lui. Avevano più o meno la stessa età, e anche la stessa storia. Hernan era nella casa del colonnello Oviedo.
Il loro divertimento era far correre le macchinine sopra il pavimento del corridoio e sognare di esserci sopra e fuggire lontano.
Juan diceva sempre: «Voglio andare in America e diventare un cowboy». Gli piaceva guardarli nei film e faceva sempre il tifo per loro, mai per gli indiani.
Hernan, invece, immaginava di scappare in Europa, in Italia aggiungeva. Una volta aveva visto la foto del nonno materno, un volto simpatico, con un bel paio di baffi a incorniciare il sorriso, e gli avevano raccontato che era nato a Palermo, che laggiù faceva sempre caldo, che l’aria profumava di limoni e che un giorno o l’altro lui avrebbe visto la città del nonno.
«Io vado a Palermo» ripeteva Hernan.
Juan Antonio aveva anche due fratelli: Mario e Simon. Erano di poco più vecchi di lui. Non li sopportava. A quindici anni sembravano dei lord inglesi: sempre vestiti in modo impeccabile, in giacca e cravatta. Non si erano mai sdraiati con lui in mezzo al corridoio e non avevano mai fatto correre le macchinine. Lui li disprezzava e loro disprezzavano lui. Forse, con quel comportamento altezzoso e irritante, gli volevano rimproverare il fatto di essere lì, nella loro casa, con la loro famiglia.
Un giorno Juan Antonio incontrò la verità.
Fu un caso.
Era rientrato in anticipo da scuola, aveva aperto la porta di casa senza far rumore e non aveva salutato come era solito fare. Papà e mamma erano sul divano a guardare la televisione. Non si accorsero del suo ingresso.
La televisione trasmetteva le immagini di una protesta delle donne di Plaza de Mayo.
«Guardale – disse la signora Suarez a suo marito – Quelle adesso rivorrebbero i nostri figli, quelli che noi abbiamo cresciuto, educato, mandato a studiare. Capisci, Julio?».
«Non ce li porteranno via, Clara. Sta’ tranquilla!».
Parlavano come due possidenti terrieri cui i contadini minacciavano di sottrarre il raccolto.
Juan Antonio ascoltò tutta la conversazione, con gli occhi sbarrati e ben attento a non farsi notare: per questo si era nascosto dietro la parete della cucina, lì non si sarebbero mai accorti di lui. Gli venne da piangere, da strillare, da picchiare quei due bastardi che fino ad allora erano stati i suoi genitori. Però non si mosse da dov’era.
La sera, mentre il resto della famiglia si preparava alla cena, lui infilò mutande, calzini e qualche camicia dentro un sacco di plastica e scappò.
Aveva diciassette anni, e la partita decise di giocarsela da solo.
Dopo mesi di ricerche trovò la nonna che aveva formato un «comitato di resistenza»: quelle donne lottavano per riavere almeno i loro nipoti, dato che i figli erano spariti in qualche fossa comune. I militari del generale Videla non conoscevano pietà: prima gli interrogatori e le scariche elettriche se non parlavi, poi la morte.
Juan Antonio diventò investigatore. Scoprì che la madre e il padre non avevano retto alle torture, i loro corpi erano stati buttati in mare. L’unica cosa che restava era la data: 25 giugno 1978.
Quel giorno, a Buenos Aires, l’Argentina vinse il mondiale di calcio battendo in finale l’Olanda: il generale Videla consegnò la coppa nelle mani di Passarella, che era il capitano, e la folla ebbe i loro eroi. A trecento metri dallo stadio Monumental, dove si svolgeva la festa, un gruppo di dieci ragazzi, donne e uomini, veniva giustiziato a colpi di rivoltella sulla nuca. Ma nessuno, nel frastuono generale, poté udire quegli spari.
Dimenticati per sempre.
Ormai stanco di divertirsi da solo con le freccette, Juan Antonio Hernandez prese la decisione: avrebbe portato la sua rabbia nelle strade di Buenos Aires, avrebbe mostrato a tutta la città chi erano gli assassini e chi erano quelli che non avevano parlato, dunque complici, dunque colpevoli pure loro.
Fece ingrandire le fotografie degli undici campioni del mondo e dell’allenatore Luis Cesar Menotti, ne ricavò dei poster e li fece stampare su fogli leggeri: un metro di lunghezza e sessanta centimetri di larghezza. Di notte li andava ad appiccicare ai muri della città: uno in una strada trafficata, uno in un vicolo, uno in una piazza. C’era una logica precisa: li sistemava a seconda dell’importanza del personaggio. Sotto a ogni fotografia, con un pennarello rosso, scriveva: «Assassino». E firmava: il figlio di Maria e Alberto Hernandez, uccisi il 25 giugno 1978.
Riuscì a fare undici colpi senza essere scoperto.
Il dodicesimo tentativo fu una sorpresa.
Juan Antonio, intorno alle due di notte, si mise in macchina e si diresse verso Plaza de Mayo. Quando arrivò prese l’ultimo poster della collezione e attraversò la strada. Cominciò le operazioni: spalmò la colla sul dorso del foglio, attaccò prima la parte superiore e la stese bene, fece attenzione a evitare ogni piega, il sorriso era perfetto. Poi fissò la parte inferiore e scrisse: «Assassino». Come sempre, firmò.
Quando si girò Juan Antonio ebbe un sussulto: il poster era sceso in terra.
«Hai ragione, ragazzo. Ho sbagliato. Ma non posso più tornare indietro. Nessuno cancellerà la mia colpa e quella dei miei giocatori. E nessuno ti ridarà più i genitori. L’unica consolazione è che il generale Videla è in prigione, che i delitti verranno pagati e che tutto questo non si ripeterà mai più».
«Lo dice lei, signor Menotti, ma io non la penso così. Il pericolo esiste sempre e noi dobbiamo tenere alta la guardia. Per questo io devo far sapere a tutta Buenos Aires che lei e i suoi giocatori siete stati degli assassini. La memoria non si cancella».
«Che cosa potevamo fare in quel momento, con la gente che urlava di gioia e la coppa che aspettava di essere sollevata?».
«Non dovevate ritirarla da quelle mani sporche di sangue, non dovevate. Con il vostro gesto li avete aiutati a sopravvivere e a nascondere i loro crimini. Per un attimo di gloria avete dimenticato la sofferenza, ecco la vostra colpa. Avete fatto come tutti: siete giunti a patti con il potere. Tu mi dai la coppa e io taccio. Questo è stato il baratto. Vigliacchi! Vigliacchi e assassini!».
«E il popolo che guardava? Voleva che quella coppa fosse sollevata, la sentiva sua».
«Se avessero saputo la verità, tutta la verità, forse avrebbero sputato dentro quel trofeo. Ma nessuno gliel’ha mai raccontata, la verità: tutti zitti, voi, impauriti, tutti nel gruppo, ben protetti e attenti a non dare fastidio a chi comandava. Il silenzio è la vergogna e adesso pagate».
Juan Antonio terminò il discorso e si avviò alla macchina.
Il giorno dopo, passando da Plaza de Mayo, vide un gruppo di persone attorno al poster. Si avvicinò. Il volto di Menotti era sorridente, come la sera prima. La scritta «Assassino» nessuno l’aveva cancellata, e nemmeno la firma.
Però c’era qualcosa ancora, più in basso, proprio vicino alla firma. Una mano con un pennarello blu aveva scritto: «Mi vergogno. Perdonatemi».
L’autografo, a Buenos Aires, lo conoscevano tutti: Luis Cesar Menotti.

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